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Street art: sulle tracce di Banksy

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Who’s Banksy? Qual è il volto, la vera identità che si cela dietro il più fantomatico e, anche per questa affascinante singolarità, più famoso streeter in circolazione? C’è chi assicura di conoscerlo per aver frequentato la sua stessa scuola o chi giura di averlo recentemente incontrato, come un bambino che asserisce perfino di avere ricevuto in dono dal maestro in persona, durante un viaggio in treno, un suo disegno autentico.
Delle origini e del vissuto di Banksy, in effetti, non si conosce granché: sembra sia nato più o meno nel 1974, in Inghilterra, forse a Bristol, dove, nei primi anni Novanta, dovrebbe essere avvenuto anche il suo approccio ai graffiti, dopo l’adesione a una cerchia underground di artisti che proponevano quel genere; nel 2000 sarebbe poi emigrato a Londra, la decisiva “base di lancio” per la sua leggenda, tanto sensazionale, quanto incredibilmente misteriosa.
Il periodo di formazione in seno a una crew nella sua presunta città natale, poi all’ombra del Big Ben, la presa di coscienza di possedere un bel “gruzzolo” di mezzi e idee da spendere: per colui che sarebbe divenuto il writer per eccellenza era giunta l’ora di conquistare i palcoscenici più allettanti (magari perché “complicati”) di cui “mamma strada” disponeva in tutto il globo. Banksy fissò l’appuntamento con la storia nel 2005, quando firmò nove murales in Palestina: da allora, tra culto e clandestinità, ha portato a spasso il suo formidabile talento per i cinque continenti del pianeta.
Nel nuovo millennio, dunque, un fuoriclasse decollava e si consegnava al mito senza rivelare le proprie sembianze, braccato da quei media che, da un lato, cercavano di risolvere un “enigma anagrafico”, mentre dall’altro contribuivano sensibilmente ad alimentare la notorietà di un “fantasma” che lasciava ovunque tracce destinate a fare scuola.
Ora, assodato che Banksy si sia ritagliato parte del suo successo grazie al paradosso dell’anonimato che sa sprigionare luce, i motivi che, comunque, lo hanno portato a diventare il profeta indiscusso, seppur controverso, della street art, vanno cercati piuttosto nella sua cifra stilistica, nonché nelle tematiche affrontate e nei messaggi proclamati attraverso le opere, disegni che, all’improvviso, spuntano dove si sente il bisogno di una voce, al contempo originale e autorevole, per amplificare il disagio locale.
Banksy fonda la sua arte sullo stencil, la tecnica che permette di realizzare pitture, spruzzando vernice su “maschere” precedentemente preparate, in modo da ottenere sagome dai contorni corrispondenti a quelli dei vuoti ritagliati: è evidente che la scelta di affidarsi a questo stile “rapido” ha fondamentalmente garantito negli anni lo status di “inafferrabile” al più celebre degli street artist. E se i soggetti che egli rappresenta si sintetizzano nell’alternanza o (ancor più) nella contrapposizione figurativa tra forti e deboli, “grandi” e “piccoli”, primi e ultimi, le frasi lapidarie che ad essi abbina si rivelano veri e propri strali scagliati (anche sotto il velo dell’ironia) contro quanto di male produca l’umanità corrotta: affarismo, dittature reali o di fatto, sfruttamento, devastazione, conformismo, indifferenza. In altre occasioni, lo streeter britannico compie incursioni nell’arte classica, rivisitando, sovente fino alla dissacrazione, quadri celeberrimi; oppure si appropria di emblemi della nostra civiltà (si fa per dire) per rielaborarli secondo la sua particolare prospettiva critica.
Sappiamo che la street art si distingue generalmente per l’impegno sociale: con Banksy si è evoluta in pura denuncia, una serie di pugni metaforici contro il potere e i suoi soprusi, colpi ben assestati, ma da mani invisibili.
 

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